Notizie storiche su Pesco Sannita
di Mario D’Agostino
Pesco Sannita (originariamente Pesclum) era un castello che, già esistente al tempo dei Longobardi, ebbe il suo momento di gloria in epoca normanna. A quel tempo, infatti (si era agli inizi di febbraio del 1133), grazie all’eroica difesa opposta da un centinaio di uomini armati agli ordini del suo feudatario Roberto della Marra, unico tra i castelli normanni che circondavano Benevento, riuscì a resistere all’attacco di Rolpotone di S. Eustachio, contestabile della città, e di Rainulfo, conte di Avellino ed Airola.
Il suo nome originario (Pesclum o Pescum, cioè macigno) col passare dei secoli si trasformò in: Pesco, Piesco, Lo Pesco, Lo Pesco de la Macza e, infine, Pescolamazza. Quest’ultima denominazione, trasformazione grafica di Pesco della Marra (nome attribuito al borgo in omaggio al suo eroico feudatario Roberto), venne cambiata in Pesco Sannita nella seduta consiliare dell’ 11 febbraio del 1947 su richiesta dei reduci, stanchi dello stato di disagio morale in cui si erano trovati in ogni circostanza in cui erano stati costretti a dichiarare le proprie generalità e con esse il paese di origine.
A partire dagli inizi del XV secolo, e fino all’abolizione della feudalità (prima decade dell’Ottocento), Pesco fu quasi sempre unito a Pietrelcina. Già nel 1415, infatti, queste due terre facevano parte dei beni feudali di Filippo Caracciolo e nel 1458, dopo la congiura dei Baroni, si ritrovarono ancora unite sotto Nicola Caracciolo. Alla morte di quest’ultimo, avvenuta nel 1493, i feudi di Pescolamazza e di Pietrelcina furono ereditati dal figlio primogenito Giovan Battista che ne ottenne solenne investitura dal re di Francia, Carlo VIII, con diploma sottoscritto a Napoli l’8 marzo del 1495.
La figlia Dionora, nel 1511, li portò in dote a Giovan Tommaso II Carafa, conte di Cerreto, che nel 1522 ne vendette le rendite a Carlo Mormile per la somma di 9000 ducati con il patto di ricompra. Nel 1523, mentre militava sotto le insegne di Carlo V a Milano, durante la guerra contro il re di Francia, Giovan Tommaso venne ucciso in duello da Fabrizio Maramaldo. Ereditò il suo titolo e le sue sostanze il primo figlio maschio, Diomede III, che, essendo allora appena quinquenne, ebbe come tutore il nonno paterno Diomede II, conte di Maddaloni. Alla morte di quest’ultimo, Diomede III, dopo essere stato per un certo tempo sotto la tutela di un non meglio precisato “priore di Napoli”, sposò, ancora adolescente, Roberta Carafa che gli fece anche da tutrice. E nel 1537, con l’assenso di sua moglie, fu proprio lui a disfarsi definitivamente dei feudi di Pesco e Pietrelcina vendendone a Bartolomeo Camerario, per 5.000 ducati, il diritto di riscatto di cui era ancora titolare. Il Camerario, a sua volta, nel 1550 alienò questi due feudi a Lucrezia Pignatelli, moglie di Giovan Vincenzo Caracciolo.
Alla morte di quest’ultimo subentrò il figlio Marcello che pagò la tassa di successione (relevio) il 19 ottobre del 1564. Nell’agosto del 1585 moriva anche Marcello Caracciolo, marchese di Casalbore, lasciando il primogenito Giovan Vincenzo II erede del suo titolo e delle terre di Casalbore, Ginestra degli Schiavoni, Pietrelcina, Pescolamazza, Torre di Pagliara, Saggiano e di alcuni territori feudali nei pressi di Montesarchio. Giovan Vincenzo II, nel 1603, diede le terre di Pescolamazza e di Pietrelcina al fratello Francesco per la somma di 50.602 ducati col patto di ricompra.
Successivamente, nel 1614, su richiesta dei creditori del marchese di Casalbore, il tribunale del Sacro Regio Consiglio aggiudicò questi due feudi, per la somma di 46.200 ducati, a Giovanni d’Aquino che, nel luglio del 1623, ebbe il titolo di principe di Pietrelcina. Alla morte di Giovanni, avvenuta il 4 marzo del 1632, subentrò il primogenito Cesare che, con assenso regio del 9 febbraio 1661, diede in pegno al fratello Francesco la terra di Pescolamazza per la somma di 11.000 ducati. Cesare fu assassinato il 27 febbraio del 1668, all’età di 43 anni. L’8 marzo del 1669 fu dichiarata erede dei suoi beni feudali la figlia Antonia. Nel 1676, però, con decreto del Sacro Regio Consiglio, la terra di Pietrelcina fu assegnata a Girolamo, fratello di Cesare. Comunque, alla morte di Francesco e di Girolamo d’Aquino, Pescolamazza e Pietrelcina ritornarono alla loro nipote Antonia con l’aggiunta del feudo di Monteleone che, nel frattempo, Girolamo aveva acquistato da Giacomo II de Brier. Dopo la morte di Antonia, avvenuta senza eredi il 6 settembre del 1717, Ferdinando Venato, duca di S. Teodoro, suo parente di quarto grado, le subentrò nel 1724 previo pagamento al fisco di 20.200 ducati.
Poco tempo dopo (30 aprile 1725) il duca di S. Teodoro vendé questi tre feudi, per la somma di 75.000 ducati, a Francesco Carafa che, con diploma spedito da Vienna il 17 novembre del 1725, ottenne il titolo di principe di Pietrelcina dall’imperatore Carlo VI d’Austria. Francesco Carafa morì il 9 gennaio del 1768; ma solo il 20 novembre del 1772, con decreto della Gran Corte della Vicaria, fu dichiarato erede dei suoi beni feudali Pietro Maria Firrau, principe di Luzzi.
Dopo la morte di quest’ultimo, avvenuta il 24 novembre del 1776, fu riconosciuto erede il figlio Tommaso Maria con decreto della Gran Corte del 21 gennaio del 1777. A partire dal 1779 entrò in possesso di questi beni feudali Luigi Carafa di Milizia della Stadera alla cui morte subentrò il conte di Policastro e duca di Forlì, Francesco Carafa, che fu l’ultimo barone di Pesco.
Fu proprio sotto gli ultimi due feudatari che per il paese si registrarono i fatti più significativi del XIX secolo. Nel 1802, infatti, Luigi Carafa donò al popolo di Pescolamazza il corpo di S. Reparata martire, ricevuto a Roma il 7 ottobre del 1801 dal cardinale Benedetto Fenaja, assistente al soglio pontificio. In realtà ai pescolani, inizialmente, era stato destinato il corpo di S. Pio martire che ora, invece, si trova nella chiesa di S. Anna a Pietrelcina.
L’ipotesi più attendibile che si possa fare su questo cambio di destinazione del dono di Luigi Carafa è che don Basilio Veteri, l’arciprete pescolano del tempo, non abbia ritenuto il corpo di S. Pio corrispondente alle proprie aspettative non solo a causa del suo pessimo stato di conservazione (un mucchietto d’ossa in una cassetta di legno) ma anche, e soprattutto, a causa della limitazione di culto espressamente imposta nella lettera testimoniale che l’accompagnava (venerazione dei fedeli senza Ufficio e Messa, come dettato dal decreto della S. Congregazione dei Riti dell’ 11 agosto 1691). Ci voleva ben altro, infatti, per riportare nell’ambito della parrocchia del SS. Salvatore il popolo pescolano legato ormai da secoli alla chiesa di S. Nicola la quale, ricadendo fin dal 1518 sotto lo iuspatronato dell’università (cioè del comune), era praticamente fuori dalla sua giurisdizione e da quella del feudatario stesso.
Il Carafa, ritenendo giusto questo rilievo, si sarebbe recato nuovamente a Roma per procurarsi il corpo di un altro martire che potesse essere venerato dal popolo senza limitazioni di sorta. E che ciò sia realmente avvenuto è confermato dalle date di concessione dei due martiri (18 agosto 1801 per S. Pio e 7 ottobre 1801 per S. Reparata) e dal fatto che nella seconda lettera testimoniale non compare più la clausola limitante presente nella prima. A questo punto il barone, una volta assegnate ai pescolani le spoglie di S. Reparata, avrebbe donato all’arciprete dell’altro suo feudo di Pietrelcina i resti mortali di S. Pio non sapendo forse come altrimenti conservarli. Andò a finire, poi, che questo dono non richiesto diede il frutto più bello se è vero, come è vero, che fu proprio grazie ad esso che il giovane Francesco Forgione, al momento di entrare come novizio nel convento di Morcone, scelse di chiamarsi fra Pio. E così il legame di sangue che unisce i pescolani al Santo pietrelcinese (una sua trisavola, Maddalena Angela Marino, era proprio di Pesco) risulta notevolmente rinsaldato da questo fatto veramente singolare avvenuto due secoli fa.
Il secondo avvenimento significativo per Pesco avvenne al tempo di Francesco Carafa, suo ultimo barone. Infatti fu proprio sotto di lui che, approfittando della legge sull’eversione della feudalità promulgata nel 1806 da Giuseppe Bonaparte, tre coraggiosi cittadini pescolani, Dionisio Guerra (cancelliere archivario del comune), Antonio Orlando e Gennaro Vetere, intrapresero una lunga azione legale allo scopo di ottenere che il feudo di Monteleone venisse diviso in quote tra tutti i capifamiglia. L’affare, al quale si interessarono personaggi del calibro di Winspeare, regio procuratore generale sostituto presso la Gran Corte di Cassazione, G. Mazas, intendente di Avellino, G. Zurlo, ministro dell’Interno, e lo stesso Gioacchino Murat, si concluse con la vittoria del conte di Policastro. Il 31 marzo del 1812, infatti, l’intendente Mazas emise un’ordinanza in cui dichiarava che l’ex feudo di Monteleone, essendo diviso e separato dal territorio di Pescolamazza, non era ripartibile a vantaggio dei pescolani.
Ma Gennaro Vetere che non si era dato per vinto, nel novembre del 1817, approfittando di una legge che in pratica riapriva il contenzioso feudale, chiese che fosse annullata l’ordinanza Mazas per difetto di notifica e per eccesso di facoltà nella persona dell’Intendente. La Gran Corte dei Conti, però, con sentenza del 22 giugno 1818, dichiarò inammissibile il reclamo, facendogli salvo il solo diritto di ricorrere ad un giudice competente per dimostrare la perpetuità della colonia sull’ex feudo di Monteleone.
Solo dopo circa un ventennio (24 gennaio 1837) il comune di Pescolamazza, avuta la relativa autorizzazione con real rescritto del 7 dicembre 1836, chiamò in giudizio Francesco, Laura e Teresa Carafa per sostenere tale diritto in nome di alcuni privati cittadini pescolani. Avendo il tribunale di Avellino rigettato questa istanza, fu presentato ricorso alla Gran Corte Civile di Napoli che, con decisione del 27 dicembre 1840, invitò i ricorrenti a provare con titoli e testimoni l’esistenza delle colonie. Il procedimento che si trascinò ancora per altri undici anni alla fine si chiuse con la vittoria definitiva degli eredi Carafa. La già citata Gran Corte, infatti, con sentenza del 30 luglio 1851, per la insufficienza, la inverosimiglianza e le contradizioni delle prove esibite, dichiarò non giustificata la colonia perpetua e condannò il comune e i privati cittadini al pagamento delle spese di giudizio ammontanti a 634,38 ducati. Nel 1853, finalmente, per il mutato orientamento legislativo in materia feudale, e non certo per le reiterate e sfortunate azioni legali dei pescolani, la famiglia Carafa concesse in enfiteusi perpetua al comune di Pescolamazza l’ex feudo di Monteleone che, suddiviso in quote, venne poi ripartito tra tutti i cittadini aventi diritto in cambio di un canone annuo di 23,45 lire pro capite.
Pesco Sannita, per la sua posizione geografica, ebbe una certa importanza nell’assetto amministrativo ottocentesco. Già a partire dal 1812, quando faceva ancora parte del Principato Ultra (Avellino), fu scelto, infatti, come capoluogo di circondario al posto di Fragneto Manforte. Anche dopo la nascita della provincia beneventana mantenne questa sua prerogativa divenendo sede di pretura, di carcere mandamentale e di ufficio di bollo e registro per circa un trentennio, fino all’applicazione della legge 30 marzo 1890.
* Per approfondire le notizie qui riportate cfr. M. D’Agostino: Storia di Pesco Sannita, Fratelli Conte Editori, Napoli, 1995; Pesco Sannita tra cronaca e storia, Arte Tipografica, Napoli, 2000; Dalle rive del Tevere alle sponde del Tammaro, Arte Tipografica, Napoli, 2002; Pesco Sannita - Storia di un Millennio, Vereja Edizioni, Benevento, 2009